News/Responsabilità medica.Infezioni ospedaliere: chi deve provare il nesso causale?

Responsabilità medica

Epatite C contratta durante l'operazione: chi deve provare il nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui si richiede il risarcimento?

In caso di infezione da virus HCV (epatite C), grava sul paziente, che abbia subito il contagio, l’onere di provare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento; il suddetto onere va assolto dimostrando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno (ossia, del contagio), con la conseguenza che, se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda deve essere rigettata.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza del 2 settembre 2019, n. 21939 (testo in calce) conferma il proprio orientamento in materia di responsabilità medica e torna a chiarire l’ambito di applicazione del principio di vicinanza della prova e del criterio di probabilità relativa.

La vicenda

Una donna conveniva in giudizio la struttura sanitaria presso cui aveva subito un’operazione al ginocchio, deducendo di aver contratto, in quella sede, il virus dell’epatite C. La danneggiata scopriva il contagio ad un anno di distanza e, non avendo effettuato altri interventi in quel torno di tempo, attribuiva l’infezione alla casa di cura. Quest’ultima negava ogni addebito, sostenendo che la donna non avesse ricevuto trasfusioni e che il rischio di contagio fosse percentualmente molto basso. Inoltre, sottolineava come la paziente, in precedenza, si fosse sottoposta ad altri 6 interventi, oltre alle cure odontoiatriche. La richiesta risarcitoria dell’attrice veniva rigettata in primo e in secondo grado, in quanto i giudici ritenevano che la donna non avesse dimostrato l’insorgenza della malattia a seguito dell’intervento, né l’assenza dell’infezione all’atto dell’operazione. La danneggiata propone ricorso in Cassazione, sostenendo che spetti alla struttura sanitaria dimostrare la preesistenza della malattia, prima del ricovero. Vediamo come si è pronunciata la Suprema Corte.

Principio di vicinanza della prova

Nel caso in esame, la danneggiata si è limitata a provare l’intervento (quindi, il contratto intercorrente tra la stessa e la struttura) e l’insorgenza della malattia; ella non ha offerto alcuna dimostrazione del nesso causale, ritenendo sufficiente che si trattasse di un’infezione nosocomiale. Con tale sintagma, si fa riferimento alle cosiddette “infezioni ospedaliere”, ossia alle situazioni in cui un paziente, che si trova ricoverato presso una struttura, contragga una o più infezioni, collegate al ricovero. Ebbene, ad avviso della ricorrente, risulta evidente una relazione diretta tra il ricovero e il contagio. Tale ricostruzione viene contestata anche dal giudice di legittimità, secondo il quale non è applicabile, al caso in esame, il principio della vicinanza della prova (Cass. S.U. 13533/2001). Si ricorda che, in base a tale principio, l’onere probatorio deve ripartirsi considerando, in concreto, quali siano le possibilità per le parti di provare le circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione; pertanto, è ragionevole gravare dell’onus probandi la parte a cui è più vicino il fatto da dimostrare. La ratio del principio è agevolare il danneggiato, che si trovi in una situazione in cui incontrerebbe difficoltà insuperabili a dimostrare il fatto oggetto di contestazione. Invece, il principio non si applica laddove «le circostanze oggetto di prova, per le stesse caratteristiche della situazione presa in esame, rientrano nella piena conoscibilità ed accessibilità di entrambe le parti, tali da consentire senza particolari difficoltà alla parte di provare i propri requisiti soggettivi».

Criterio del “più probabile che non”.

In ambito civile, in materia di accertamento del nesso causale tra il fatto e l’evento dannoso, opera il principio di “preponderanza dell’evidenza” o del “più probabile che non”, a differenza del processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”. Infatti, il nesso eziologico tra una condotta illecita e un danno può essere affermato non solo quando vi sia certezza, ma anche quando ne sia una conseguenza ragionevolmente probabile. La ragionevole probabilità non va intesa in senso statistico (probabilità quantitativa o pascaliana), ma logico (probabilità logica o baconiana), ossia considerando tutte le circostanze del caso concreto (Cass. 3390/2015; Cass. 4024/2018).
Nella fattispecie in esame, era emerso che la probabilità di contrazione dell’infezione nell’intervento al ginocchio (oggetto di contestazione) era inferiore al 10% circa, mentre quella di aver contratto in virus durante i 6 precedenti interventi aveva una percentuale di gran lunga superiore. Pertanto, in base a tale criterio probabilistico, corroborato dalle risultanze della CTU, i giudici hanno ritenuto infondata la domanda attorea, stante il mancato raggiungimento della soglia del “più probabile che non”.

Ripartizione dell’onere probatorio

La Cassazione ribadisce quanto affermato in altre pronunce in tema di responsabilità medica, ossia è onere del paziente – che agisca per il risarcimento – dimostrare l'esistenza del nesso causale tra l'evento di danno (l’insorgenza dell’infezione) e la condotta dei sanitari, provando che la condotta del medico è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata (Cass. 3704/2018; Cass. 18392/2017). Nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, occorrono due distinti accertamenti:
• l’accertamento della condotta colposa del responsabile (ad esempio, il medico),
• l’accertamento del nesso eziologico tra la condotta e il danno.

Da dimostrazione della condotta colposa del medico non è sufficiente a provare anche il collegamento causale tra essa e il danno.
In ambito contrattuale (art. 1218 c.c.), il creditore dell’obbligazione inadempiuta non ha l'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma deve dimostrare il nesso di causa tra la condotta del debitore ed il danno di cui domanda il risarcimento; così, nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare, con qualsiasi mezzo, l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento.
La ratio della previsione dell'art. 1218 c.c. è da ricercarsi nell’opportunità di far gravare sul soggetto inadempiente (o non esattamente adempiente) l'onere di fornire la prova positiva dell'avvenuto adempimento (o dell'esattezza dell'adempimento), sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla. Nondimeno, tale principio non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell'obbligato (il medico) e il danno lamentato dal creditore (il paziente che ha contratto l’infezione). In tale circostanza, non avviene l'inversione dell'onere della prova prevista dall'art. 1218 c.c., ma torna ad applicarsi il principio generale per cui actore non probante reus absolvitur (l'art. 2697 c.c.). Infatti, parlando di vicinanza, quelli relativi al nesso causale sono elementi egualmente "distanti" da entrambe le parti, quindi, non opera un’inversione dell’onere della prova a carico del danneggiante, a differenza di quanto accade per la prova dell'avvenuto adempimento o della correttezza della condotta (Cass. Ord. 20812/2018; Cass. 29315/2017).

Inadempimento qualificato del sanitario
La Corte sottolinea come i principi sopra esposti non si pongano in contrasto effettivo, ma solo apparente, con quanto sostenuto dalle Sezioni Unite (Cass. S.U. 577/2008). In quella sede, in materia di riparto dell’onere probatorio, si affermava che

il paziente danneggiato debba allegare:
• l’esistenza del contratto (o contatto sociale),
• l’insorgenza o l’aggravamento della malattia,
• l’inadempimento del sanitario idoneo a cagionare il danno.

Per contro, il debitore deve dimostrare che:
• non v’è stato inadempimento, oppure
• l’inadempimento non è stato eziologicamente rilevante nella causazione del danno.

Quanto sopra vale (ed è stato affermato) con riferimento ad un inadempimento qualificato, tale da comportare la presunzione di derivazione del contagio dalla condotta, in assenza di altri fattori “più probabili”. Il nesso causale può essere provato anche presuntivamente (Cass. 4024/2018), così accade, ad esempio in caso di:
• danni da emotrasfusione con sangue infetto (Cass. S.U. 582/2008; Cass. 5961/2016);
• danni al paziente derivanti dall'opera del medico, nel caso di cartella clinica incompleta (Cass. 10060/2010);
• danni da malattie professionali (Cass., Sez. L, 14403/2003; Cass. Sez. L, 1488/1986).
La prova della prestazione sanitaria, in una situazione simile, contiene già quella del nesso causale, quindi, spetta al convenuto l'onere di fornire una prova contraria secondo la regola generale (art. 2697 c. 2 c.c.) e non la prova liberatoria (ossia che il fatto sia dipeso da causa a lui non imputabile) richiesta dalla norma in materia di responsabilità contrattuale (art. 1218 c.c.).

Conclusioni

In base alle argomentazioni sopra esposte, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e ha ribadito il proprio orientamento in tema di responsabilità medica, stabilendo che l’attore-paziente danneggiato:
• ha l’onere di provare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento,
• deve dimostrare che la condotta del sanitario è stata la causa del danno secondo il criterio di probabilità logica (“più probabile che non").
Se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda deve essere rigettata.
CASSAZIONE CIVILE, ORDINANZA 21939/2019

 

fonte altalex


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